IL PRETORE Letti gli atti del proc. pen. n. 2408/92 g.i.p. 5373/90/B P.M. osserva in fatto e in diritto quanto segue: 1. - A seguito di rituale opposizione a decreto penale il g.i.p. rinviava a giudizio, dinanzi a questo pretore, Carrato Massimo per rispondere dei fatti di cui alla epigrafe. All'odierno dibattimento si procedeva, in contumacia dell'imputato, alla esclusione del creditore il quale, tra l'altro, nel confermare che il prevenuto, anteriormente alla entrata in vigore della legge n. 386/1990, gli aveva in contanti pagato la somma capitale dell'assegno in atti, ribadiva in uduenza la volonta' di null'altro a pretendere (interessi, spese di protesto e penale) in forza del suddetto titolo. Questo pretore, allora, provvede con la presente ordinanza dandone lettura in dibattimento. 2. - Con essa viene impugnato l'art. 11 della legge n. 386/1990 nella parte in cui non prevede, quale condizione di improcedibilita' (o come causa estintiva) per i reati afferenti agli assegni, anche la remissione del debito, per violazione dell'art. 3 della Costituzione. Si chiede, altresi', che la Corte, ai sensi dell'art. 27 della legge n. 87/1953, sollevi di ufficio analoga questione in riferimento all'art. 8 della legge n. 386/1990. 3. - Come e' noto due sono i precetti enucleabili dall'art. 3 cit. Da una parte esso impone che situazioni identiche debbano avere identica disciplina; in secondo luogo esso impone ragionevolezza nella disciplina; il che implica tra l'altro, che riconosciuto un determinato beneficio in riferimento a determinate circostanze di fatto, lo stesso beneficio deve essere riconosciuto in riferimento a circostanze omogenee rispetto alla finalita' della disciplina. Orbene la questione, come sopra posta, non e' manifestatamente infondata. A tal fine e' necessaria l'analisi dell'attuale sistema. Come e' evidente dal chiaro tenore letterale dell'art. 11 il pagamento, nei termini ivi indicati, della somma capitale portata dall'assegno, degli interessi legali, delle spese di protesto e dell'ulteriore clausola penale, determina la improseguibilita' dell'azione penale. E' altresi' evidente che il pagamento va eseguito nei confronti o del portatore o del giratario che, sulla base degli artt. 1992 e seguenti, sia legittimo possessore del titolo. La novita' introdotta dal legislatore va altresi' letta in riferimento sia alla nuova struttura delle fattispecie ivi previste sia con riferimento alla finalita' di tale causa di improcedibilita'. Sotto il primo aspetto, il reato di emissione di assegno a vuoto, consumandosi nel tempo e nel luogo del mancato pagamento, da reato di pura condotta (come era nel d.P.R. n. 1736/1933) e' divenuto reato di evento essendo il mancato pagamento elemento costitutivo del reato. Cio' rende evidente anche la finalita' e la funzione del pagamento rilevante ex art. 11 (e 8): con esso, venendo meno il danno tipico del reato, il legislatore ritiene opportuno non perseguire il fatto commesso. 4. - Tale meccanismo delineato dal legislatore va inquadrato nel sistema penale e civile nel quale si inserisce. Sul punto si impongono le seguenti osservazioni. Innanzitutto, trattandosi di una condizione di improcedibilita'/improseguibilita' dell'azione penale (ma alle stesse conclusioni si puo' giungere costruendo il pagamento come causa di estinzione del reato) vige il divieto di applicazione analogica. In secondo luogo il legislatore aggancia la suddetta al pagamento; termine, questo, tecnico da individuare come adempimento di obbligazioni pecuniarie ex artt. 1188 e seguenti del c.c. che si sostanzia nella dazione di una somma di denaro da parte del debitore a favore del creditore corrispondente a quella dovuta in base al titolo, fonte del rapporto obbligatorio. In terzo luogo, da tutto cio' consegue che la suddetta causa non opera o allorche' il pagamento sia parziale (ancorche' accettato dal creditore) o allorche' ci si trovi di fronte ad altre cause di estinzione del credito diverse dal pagamento (da identificare in quelle previste dagli artt. 1230 e seguenti del c.c.), come sopra inteso. 5. - Orbene la irrilevanza del pagamento parziale sic et sempliciter e delle cause di estinzione dell'obbligazione di cui agli artt. 1230, 1241 e 1256 e' chiaramente legittima. A tal fine e' sufficiente rilevare che trattasi di situazioni ontologicamente di- verse dal pagamento che non elidono il mancato adempimento dell'obbligazione originaria e quindi il danno conseguente. Diverse devono invece, essere le conclusioni in ordine alla remissione la cui esclusione (non ovviabile in sede interpretativa vigendo il divieto di applicazione analogica) e' irragionevole sotto entrambe gli aspetti enucleati sub 3. Cio' per le considerazioni che si vengono ad esporre. 6. - Innanzitutto vi e' da rilevare che la remissione costituisce atto unilaterale recettizio di natura abdicativa. Come tale i motivi sono insindacabili (salvo la rilevanza dell'illecito ex art. 1345 e norme correlate) e l'atto e' espressione della liberta' economica garantita a tutti allorche' trattasi, come nella specie, di diritti disponibili. Se si analizza, poi, la funzione della remissione ci si avvede che essa in primis libera il debitore dal vincolo (al contrario delle altre forme di estinzione del rapporto obbligatorio) e in secondo luogo ha natura satisfattiva (seppur realizzata in forme diverse dal pagamento). Infatti, senza entrare in annose questioni puramente teoriche, a tal fine e' sufficiente rilevare che, attraverso la remissione (totale o parziale che sia), o viene meno l'interesse del creditore all'adempimento (nell'ipotesi in cui tale atto intervenga prima che il credito divenga esigibile) ovvero viene meno il danno conseguente all'inadempimento (nell'ipotesi in cui la remissione intervenga successivamente). Da cio' una prima e fondamentale conclusione: la remissione e' strutturalmente e diacronicamente identica al pagamento; infatti in entrambe i casi il debitore si libera dal vincolo realizzando anche l'interesse del creditore (seppur in modo diverso). Quindi le due situazioni, essendo sostanzialmente analoghe, devono fruire della stessa disciplina normativa; per cui, ai suddetti fini, aver dato rilievo esclusivamente al pagamento (peraltro integrale) e non anche alla analoga situazione della remissione, viola il precetto della ragionevolezza. Cio' e' ancor piu' vero ove si ponga mente che anche la remissione, come il pagamento, e' situazione idonea a elidere gli effetti dannosi prodotti con la emissione a vuoto dell'assegno. 7. - Non solo; ma un altro aspetto va rilevato. Invero il pagamento rilevante ex art. 11 (e 8) della legge n. 389/1990, essendo stato effettuato in ritardo, costituisce ex art. 1218 del c.c. un inadempimento tant'e' che il legislatore, ragionevolmente, ha imposto la dazione delle ulteriori somme ivi previste. In sostanza, seppur imponendo l'integrale risarcimento (peraltro in sintonia con i principi civilistici in materia), il legislatore ha attribuito rilievo, nell'attuale sistema, ad un fatto-inadempimento. Di qui l'ulteriore irragionevolezza atteso che la remissione (non importa se intervenuta prima o dopo la scadenza del termine di adempimento), esclude in radice la configurabilita' della fattispecie di cui all'art. 1218 del c.c.; invero il beneficio non e' stato riconosciuto ad una situazione (remissione di debito) che costituisce in termini di antigiuridicita', un quid minus rispetto a quella del pagamento in ritardo. Quindi anche sotto tale prospettiva la disciplina enucleata dall'art. 11 e' certamente irragionevole. 8. - Ma l'attuale disciplina viola anche il principio di uguaglianza in senso stretto. A tal fine si deve rilevare che essa, nel dar rilievo esclusivo al pagamento, crea di fatto una disparita' di trattamento tra cittadini. A tal fine si deve rilevare che, ove il creditore accetti il pagamento integrale, il debitore potra' fruire della dedotta causa di improcedibilita'; ove, invece, al contrario, il creditore abbia rimesso il debito, il debitore, proprio in forza del suddetto legittimo e insindacabile atto, non potra' di fatto fruire del suddetto beneficio. E' evidente allora la disparita' di trattamento che si viene a creare a parte subiecti; disparita', giova ribadire, irragionevole, oltre che per le considerazioni suddette, anche perche' il debitore non ha, in tale situazione (pur essendo essa fisiologica e non patologica come quella dell'art. 11 del mancato pagamento), alcuna possibilita' per fruire della condizione in questione. 9. - A confutare tale conclusione non sono di pregio due obiezioni pur prospettabili. Si potrebbe dire che il debitore, nella ipotesi di remissione e al fine di fruire del dedotto beneficio, potrebbe attivare la procedura di cui agli artt. 1206 e seguenti del c.c. ovvero potrebbe dichiarare di non voler profittare della remissione ex art. 1236 del c.c. Entrambe le suddette prospettazioni non hanno pregio. Innanzitutto esse non elidono i vizi di costituzionalita' enucleati sub 5-7. In secondo luogo e in merito alla prima, e' noto che la c.d. mora credendi suppone che il creditore non accetti il pagamento; ne consegue che essa non e' configurabile nella ipotesi, come quella di specie, del tutto eterogenea, della remissione ove non si e' di fronte ad una ipotesi di mancata cooperazione del creditore nella attuazione del rapporto obbligatorio; ma semmai ad una estinzione del rapporto. Anche la seconda non ha pregio. Al di la' di doverose considerazioni circa la macchinosita' del sistema (il debitore dovrebbe rifiutare la remissione e, poi, attivare la procedura di cui all'art. 1206 che, come e' noto, potrebbe concludersi solo dopo un giudizio ordinario con tempi assai lunghi arg. ex art. 1207/3 del c.c.) che non consentirebbe comunque il rispetto dei termini di decadenza di cui all'art. 11 (e 8), una si impone ed e' assorbente. Invero, al fine di ottenere un beneficio, si imporrebbe a parte debitoris un atto contra se (quale indubbiamente e' il rifiuto della remissione) senza la certezza (atteso che, comunque, il creditore legittimamente o meno poco conta potrebbe rifiutare il pagamento) di poter comunque ottenere il beneficio. E' evidente la abnormita' di un tale sistema logicamente legato alla obiezione di cui sopra; la quale, pertanto, non puo' affatto portare a superare le obiezioni di costituzionalita' sub 8. 10. - Da tutto cio' ne consegue che la disciplina attuale, nei limiti in cui esclude, come causa di improcedibilita'/improseguibilita', la remissione (totale o parziale che sia), e' incostituzionale sia perche' questa e' ontologicamente e diacronicamente simile al pagamento (atteso che anche la prima libera il debitore dal vincolo obbligatorio ed elide il danno conseguente all'ipotetico inadempimento), sia perche', comunque, costituisce, in termini di antigiuridicita', un quid minus rispetto a quella normativa, sia, infine, perche' crea una disparita' di trattamento tra soggetti non ovviabile aliunde. Quindi la questione, come sopra posta, non e' manifestatamente infondata. 11. - Essa e' altresi' rilevante ai fini del decidere il caso di specie. Invero, in fatto, si deve rilevare che il creditore del diritto cartolare portato dall'assegno in atti, in udienza, nel precisare che il debitore-imputato gli aveva, prima del 30 dicembre 1990 pagato l'importo e le spese di protesto, reiterando una volonta' gia' implicitamente espressa nell'accettare il pagamento, ha dichiarato di voler rimettere il debito residuo che, giova ribadire, trova la sua fonte normativa negli artt. 5, 8 e 11 della legge n. 386 ma soprattutto nell'art. 1218 del c.c. Tale dichiarazione, nella specie, e' pienamente utilizzabile ex art. 11 della legge cit. alla luce della sentenza n. 407/1993 della Corte costituzionale; da cio' consegue che, ove la Corte aderira' alla prospettazione di questo pretore, si imporra' la declaratoria ex art. 11 della legge n. 386 e n. 529 del c.p.p. di improcedibilita'. E' evidente, allora, che la questione come sopra posta e' anche rilevante.